Secolo d’Italia – Le donne afghane e i diritti negati

di Isabella Rauti

In attesa di leggere il libro “Musulmane rivelate”, dell’antropologa Ruba Salih – edito da Carocci la settimana scorsa – che affronta il complesso ruolo femminile nel mondo islamico in generale ed il processo di modernizzazione delle donne, vorrei prendere spunto dal Reportage comparso sul “Corriere della Sera” nei giorni scorsi, dedicato alle donne afghane, per fare qualche riflessione.

E mentre leggevo, appunto, l’articolo di Andrea Nicastro intitolato “La prigione delle ragazze afghane: schiave, spose forzate, suicide”, mi tornava alla mente ed al cuore il bellissimo libro di Francesca Marciano (Edz Longanesi) , “La fine delle buone maniere”. Un romanzo che racconta il viaggio in Afghanistan, di una giornalista e di una fotografa occidentali, per realizzare un’inchiesta sui matrimoni combinati-forzati e su come, spesso – sempre più spesso – quelle spose-bambine si ribellino, talvolta scegliendo il suicidio come via di fuga e di libertà. Storie di mille e una donna. Storie di donne afghane, di Herat, di Kabul ma anche dei villaggi sperduti tra le montagne dell’Hindukush, definite “fantasmi velati senza voce né diritti”; esattamente come quelle descritte da Nicastro, nel suo Reportage , in cui racconta le storie di detenute del carcere minorile di Herat, costruito dall’Italia. Si tratta di bambine e giovanissime donne, colpevoli anche loro di “aver disobbedito alla legge tribale e alla tradizione”; fuggite ai matrimoni forzati – combinati e mercanteggiati dalle famiglie – con uomini sconosciuti, quasi sempre molto più grandi o addirittura anziani e poligami. Dire quel no è reato; e la condanna per questa ribellione, nel caso di una minorenne, “varia da 3 mesi ad un anno di carcere”. Ma la pena non finisce qui; poi c’è la condanna sociale e, dopo la reclusione, queste ragazze subiscono l’emarginazione da parte delle loro famiglie e della comunità. Sono reiette, spinte ai margini della società e, senza la protezione della rete familiare, non hanno la possibilità di costruirsi un’esistenza normale. E molte preferiscono morire: “si danno fuoco al ritmo di due-tre a settimana”, solo a Kabul, scrive Nicastro, mentre “in tutto l’Afghanistan si calcola che le suicide siano un minimo di una al giorno”. E, le stesse identiche drammatiche storie ritornano nel Documentario “ 1,2,3..?” , delle giovani e coraggiose registe afghane, Alka e Roya Sadat , realizzato nel 2007 nell’ ospedale di Herat, dove sono ricoverate donne, spesso giovanissime, che si danno fuoco per sfuggire alle violenze familiari e ai matrimoni forzati. Sullo sfondo evocato dal Reportage di Nicastro, scorrono storie di donne sconosciute che si danno fuoco, torce umane, o storie di donne lapidate perché sospettate di adulterio o adultere; donne velate, “fantasmi in nero”, donne che alla nostra distanza geografica e culturale, sembrano mute e quasi irreali. Donne afghane, come quelle raccontate, in modo commuovente, da Khaled Hosseini nel suo “Mille splendidi soli” (Edz.Piemme); un romanzo struggente in cui le vite diverse e distanti di Mariam e di Laila, vengono intrecciate dalla poligamia del loro marito e da un comune destino di percosse e di violenze fisiche e psicologiche. Un romanzo corale con – sullo sfondo – storie di donne dopo quella “rivoluzione talebana”, che le costrinse a casa e chiuse le scuole femminili, impose il burqa ed impedì alle donne di lavorare, di usare cosmetici e gioielli e, di guardare gli uomini negli occhi. Storie di fantasia ma metafore della realtà. Come realissima è stata la storia, la vita e la fine di Malalai Kakar, la prima donna afghana a diplomarsi all’Accademia di polizia di Kandahar ed a diventare investigatore. E’ stata uccisa, a settembre scorso, mentre andava al lavoro- accompagnata dal figlio e coperta dal suo burqa; aveva poco più di quarant’anni ed era madre di sei figli. Questa figura-simbolo di un Afghanistan femminile che vorrebbe cambiare, era diventata Capo del Dipartimento, di Kandahar , per i crimini contro le donne; era stata più volte minacciata di morte dai Taliban ed il suo omicidio è stato rivendicato dagli “Studenti di teologia” .

 

Fa bene ricordare – almeno – che, nel marzo 2007, la Corte Suprema ha approvato un nuovo contratto matrimoniale, finalizzato anche a diventare uno strumento valido contro i matrimoni precoci e forzati che, in Afghanistan si stima si aggirino intorno al 70%. Ed il Presidente Hamid Karzai è intervenuto presso gli ulema, le autorità religiose islamiche, affinchè proibissero i matrimoni forzati e fossero bandite le pene corporali inflitte agli adulteri. Fa bene anche ricordare che l’Italia ha avuto l’incarico di ricostruire il sistema giudiziario del Paese, liberato dal dominio dei talebani. Ma, nonostante la caduta del regime talebano, nel 2001, e nonostante molto sia cambiato anche per la popolazione femminile, la condizione delle donne afghane non ha registrato l’evoluzione che si poteva immaginare, soprattutto in alcune zone, come quelle – appunto – della provincia occidentale di Herat ed il Governo non nasconde la preoccupazione per il crescente numero di donne che si suicidano autoimmolandosi; le cause dei suicidi sono individuate nella persistenza dei matrimoni forzati, nella violenza domestica, nella mancanza di accesso all’istruzione e nelle condizioni di povertà di vita. I diritti umani sono calpestati e, soprattutto nelle province , sono diffusissimi gli episodi di violenza familiare contro le donne ed i maltrattamenti subiti che spingono molte donne ad immolarsi, dandosi fuoco, in un Paese in cui, forse l’unico al mondo, il numero dei suicidi femminili supera di molto quello degli uomini. Nonostante che la nuova Costituzione (sottoscritta nel 2003) riconosca pari diritti a uomo e donna, nonostante l‘esistenza di un Ministero degli Affari femminili, nonostante la presenza di donne elette nell’Assemblea nazionale (ottenuta con il meccanismo delle “quote rosa”) e nonostante che sia progressivamente aumentato il numero delle ragazze e delle bambine che frequentano la scuola (ma complessivamente l’alfabetismo femminile non supera il 15-20%) ancora oggi, in molte province dell’Afghanistan, la condizione femminile non è molto diversa dal passato storico e dal più recente passato talebano.

Anche perché, come tutti sappiamo, in alcune zone i Talebani sono ancora attivamente presente sia politicamente che militarmente. Nell ‘Afghanistan “liberato” – sostiene Beatrice Costa, Responsabile per l’Italia dell’Organizzazione Internazionale Actionaid – “con il regime dei Talebani , a soffrire di più furono le donne alle quali venne negato ogni diritto, dall’istruzione all’assistenza sanitaria”. Secondo Nasima Rahmani, responsabile per ActionAid ,del Programma per i Diritti delle Donne in Afganistan e, che abbiamo incontrato a Roma, le priorità della classe politica afgana dovrebbero essere proprio la formazione e l’alfabetizzazione delle donne; il diritto di poter lavorare; l’indipendenza economica; la tutela delle donne da episodi di violenza ed il loro accesso alle cure mediche. Gli islam sono diversi e cambia, quindi, la condizione femminile nei Paesi islamici, da quelli più avanzati che hanno visto nascere ed affermarsi movimenti democratici, tesi anche a dare maggiori diritti alle donne, a quelli che invece ancora stentano e scivolano continuamente nel conservatorismo e nell’integralismo, negando i diritti fondamentali. Ma qualunque sia “la latitudine” e la condizione, siamo convinti che le donne siano forza di cambiamento; questo evocano i versi della poetessa yemenita Hoda Ablan: “Talvolta, la sera, scoppio a piangere poi mi adiro per le mie lacrime, che hanno illuminato il mondo e consumato me”.