Reset.it – Precari a New York, le “casalinghe” del lavoro

di Madeleine Schwartz

Ogni estate, migliaia di stagisti calano su New York pronti a lavorare in cambio di niente. Confluiscono in spoglie camerate o si appoggiano per la notte sui divani degli amici, si imbucano senza farsi notare in appartamenti subaffittati illegalmente e si spostano per mesi da una brandina all’altra. Al lavoro, occupano scrivanie e uffici lasciati liberi da chi è stato licenziato di recente. Archiviano documenti, portano caffè e cercano di farsi notare ma non troppo.

Nessuno sa quanti siano, anche perché gran parte del loro lavoro non stipendiato è illegale e quindi viene tenuto nascosto. Gli stagisti nel loro complesso stanno attraversando un vero e proprio momento culturale: compaiono in televisione e nelle riviste di gossip. Nel settore lusso e come assistenti di celebrità le offerte sono infinite. Il reality show di MTV The Hills, per esempio, prende proprio spunto da un gruppo  di giovani biondone di Los Angeles che, stanche di starsene ad abbronzarsi in riva all’oceano, decidono di cercarsi uno stage. E tanto per dirne una lo stesso Kanye West, che a maggio del 2012 guadagnava qualcosa come 35 milioni di dollari all’anno, ha da poco terminato uno stage presso la casa italiana d’alta moda Fendi. In generale però il posto che gli stagisti occupano nel contesto della forza lavoro è in gran parte oscuro. Dal punto di vista legale sono un mistero e da quello professionale delle vittime, quindi classificarli risulta difficile dal momento che la loro stessa posizione ne impone l’invisibilità. Una delle abilità principali di uno stagista è infatti quella di non creare casini, di non causare problemi.

Malgrado tanti di loro lavorino per molte più ore rispetto alla media settimanale (Xuedan Wang, la stagista non retribuita che la scorsa primavera ha fatto causa alla Hearst Corporation, ha dichiarato di aver lavorato ad Harper’s Bazaar cinquantacinque ore a settimana), la maggior parte non si sognerebbe nemmeno di chiedere un compenso per il proprio tempo. Da notare come, per quanto siano le aziende profit a offrire la maggior parte degli stage retribuiti, la distribuzione di stage non pagati sia più o meno omogenea tra settore profit e no-profit. Accondiscendenti, muti e perlopiù di sesso femminile, gli stagisti sono ormai le casalinghe soddisfatte del mondo del lavoro.

L’oscurità e incertezza che caratterizza lo stage è diventata il tratto distintivo di una forza lavoro sempre più precaria, basata su occupazioni part-time, instabili e incerte. Gli stagisti lavorano per mesi senza retribuzione, senza indennità e senza assicurazione di base. Non è raro sentire di gente con il dottorato che fa uno stage e, all’altro capo dello spettro educativo, di aziende che inquadrano i propri collaboratori come stagisti per non retribuirli. Foxconn, l’azienda assemblatrice di prodotti di elettronica con sede a Taiwan, ha per esempio impiegato studenti di quattordici anni come “stagisti” per costruire l’iPhone 5. Il boom degli stage, comunque, non dipende solo dal mutato contesto economico. Nella loro sottomissione e docilità, nella loro disponibilità a lavorare gratis, gli stagisti sono lo specchio della flessibilità e dell’obbedienza imposte dalla precarietà.

La prospettiva femminista può aiutarci a comprendere meglio questo cambiamento del settore dell’occupazione. Malgrado gli stagisti abbiano fatto il loro ingresso più massiccio nel mondo del lavoro solo negli ultimi decenni, l’accondiscendenza che riflettono non è una novità. Basta considerare il parallelo delle casalinghe e dei lavori domestici. Se vogliamo capire come rafforzare la posizione di chi fa lavori temporanei, dobbiamo infatti analizzare con più attenzione le analogie tra lavoro temporaneo, occupazione femminile e lavoro non retribuito degli stagisti.

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 Gli studi sul precariato differiscono molto tra loro per quanto concerne la stima del cambiamento che si è registrato nei modelli occupazionali negli ultimi anni, ma anche le valutazioni più moderate restituiscono bene il senso di una crescente instabilità. Stando a un rapporto pubblicato nel 2000 dal Government Accountability Office (GAO) americano, se si fossero sommati tutti i lavoratori a contratto, quelli a termine, i liberi professionisti e i part-time, la percentuale complessiva dei precari negli Stati Uniti sarebbe arrivata a comprendere circa il 30 per cento della forza lavoro. Con la crisi finanziaria del 2008, tale instabilità si è ulteriormente aggravata. Secondo uno studio recente, le conclusioni di rapporti di lavoro che hanno interessato individui di età compresa tra i venticinque e i cinquantacinque anni sono aumentate del 33 per cento tra il 2007 e il 2009. Nel 2010, il Dipartimento del Lavoro statunitense ha calcolato che circa il 30 per cento delle aziende in America inquadrava abitualmente i propri regolari dipendenti come collaboratori esterni per evitare di pagare loro le indennità.

L’economia tende a una sempre maggiore flessibilità occupazionale. Secondo Guy Standing, il professore dell’Università di Bath che ha contribuito a rendere popolare il concetto di “lavoro precario”, la diffusione del lavoro temporaneo deriva dal connubio tra politica economica neoliberale e globalizzazione economica. È dagli anni Settanta che gli economisti neoliberali invocano la flessibilità del mercato del lavoro – meno tutele e più desindacalizzazione – ritenendola l’unica soluzione possibile al ristagno dell’economia. Con l’avanzare della globalizzazione, governi e multinazionali si sono spinti a vicenda a cancellare ogni tipo di regolamentazione, in una corsa al ribasso in termini di qualità dell’occupazione. Milioni di persone, anche benestanti, si sono affacciate al mondo del lavoro senza nessuna certezza.

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 Un’azienda “flessibile” ha bisogno di lavoratori flessibili e così come è cambiato il mercato del lavoro sono mutate anche le condizioni poste ai suoi attori. La flessibilità non si manifesta solo nei trend dell’economia globale, ma è diventata parte integrante della prestazione lavorativa in ufficio.

Gli annunci di stage in genere sottolineano la necessità di mostrarsi adattabili, ma anche entusiasti, remissivi e obbedienti. I consigli tipo disponibili su Internet suggeriscono allo stagista di “essere camaleontico” e adattare il proprio comportamento al posto di lavoro in cui di volta in volta si trova. In un caso si invita addirittura a fare apologia perenne: “Ti suggerisco le prime volte di iniziare sempre le email con “Scusi il disturbo””. Le innumerevoli inserzioni ripetono sempre le stesse richieste: che lo stagista sia “flessibile, energico, creativo ed entusiasta”; “flessibile, entusiasta e molto motivato oltre che con un atteggiamento positivo”; “entusiasta, flessibile e desideroso di apprendere, capace anche di prendere l’iniziativa e lavorare in maniera autonoma”.

Chiedendo a dei lavoratori all’inizio della loro carriera di apprendere questi comportamenti, i datori di lavoro non solo introducono i nuovi arrivati al contesto della vita d’ufficio, ma insegnano ai ragazzi anche a mostrarsi riconoscenti per qualsiasi opportunità lavorativa sia stata loro offerta, non importa quanto sia infruttuosa. Nessun compito dev’essere troppo spiacevole e nessun incarico deve risultare troppo un’imposizione per chi è chiamato a essere felice già solo per aver avuto l’opportunità di lavorare. E non basta ammettere di dover essere riconoscenti per aver avuto un posto. La chiave è dimostrarlo. “Grazie per questa opportunità”, recita il mantra.

Questo atteggiamento colloca tutti i lavoratori in una posizione di inferiorità che la tradizione storica generalmente riservava al genere femminile. Le occupazioni precarie e sottopagate tradizionalmente associate alle donne sono aumentate, mentre le tipologie di impiego generalmente collegate agli uomini – lavori regolari, stabili e sindacalizzati – sono diminuite. I settori occupazionali in crescita dominati dalle donne – in particolare il commercio, l’assistenza domiciliare nelle pulizie o come badanti/tate – sono anche settori contraddistinti da una grande incertezza e da minori tutele. Per quanto riguarda l’assistenza domiciliare, per esempio, ambito in cui le lavoratrici donne rappresentano l’87,7 per cento e che si stima registrerà una crescita del 50 per cento tra il 2008 e il 2018, la retribuzione media è di 10 dollari l’ora.

Anche la qualità del lavoro ha acquisito tratti sempre più sessualizzati. Le caratteristiche comportamentali richieste nel lavoro precario sono quelle tradizionalmente associate alla donna: flessibilità, sottomissione, riconoscenza. “Non c’è bisogno di essere degli essenzialisti rispetto ai “tratti femminili” convenzionali”, scrive la filosofa Nina Power nel suo La donna a una dimensione, “per rendersi conto che sta accadendo qualcosa di altamente significativo… La donna non ha bisogno di abilità specifiche sul lavoro, è atta all’occupazione in sé, per così dire, perfetta per un tipo di lavoro che ha a che fare con la comunicazione nel suo senso più intimo”. In un contesto di ufficio votato all’incertezza, da tutti noi ci si aspetta che siamo riservati, entusiasti, svelti nell’imparare e adattabili: le caratteristiche di una perfetta segretaria.

Oltretutto, tra le sue sempre più numerose responsabilità, alla stagista non retribuita è oggi anche richiesto di trasformarsi in un simbolo sessuale (pensate a Monica Lewinsky col suo vestito azzurro). “N+interns”, account Twitter satirico aperto dagli stagisti di una rivista letteraria di New York, prende in giro tutti questi stereotipi. I tweet variano da aneddoti relativi alla sottomissione dei collaboratori di livello inferiore – “Posso passare la scopa?”, cinguetta l’assistente di direzione. E la direttrice con una smorfia: “Io non posso chiedertelo” – a battute sull’immagine stereotipata della stagista sottomessa anche dal punto di vista sessuale: “Stagista su divano (2012), 162 cm. Per il prezzo, chiedere all’interno”.

Al contrario delle segretarie, peraltro, le stagiste non sono tutelate da gran parte delle leggi contro le molestie sessuali. Ancora nel 2008, un’accusa di molestie sessuali mossa da una stagista è stata fatta decadere perché la legge antidiscriminazione di Washington D.C. definisce “impiegato” solo chi riceve un compenso per il proprio lavoro.

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 Malgrado “precarietà” sia oggi un termine parecchio alla moda, il fenomeno non è propriamente nuovo. Gli storici del lavoro spesso sottolineano come prima del New Deal ogni occupazione fosse fondamentalmente precaria, con pochissime tutele da parte delle istituzioni. Nel 1930, i lavoratori organizzati erano circa il 7,5 per cento sul totale degli occupati statunitensi; oggi, l’11,8 per cento della forza lavoro in America è sindacalizzata. In questo intervallo, solo all’apice del tasso di sindacalizzazione raggiunto negli anni Cinquanta, quando i sindacati arrivarono a una quota vicina al 35 per cento, i lavoratori poterono contare su una tutela maggiore.

Da ciò alcuni prendono spunto per auspicare una diffusione del lavoro organizzato rispetto ai contratti impiegatizi temporanei. Charles Heckscher, docente del Department of Labor Studies and Employment della Rutgers University, porta l’esempio della Freelancers Union, un’organizzazione no-profit che garantisce l’assistenza sanitaria ai suoi membri, perlopiù “lavoratori autonomi della conoscenza” (lui stesso fa parte del comitato direttivo dell’associazione, si veda al proposito “The ‘I’ in Union” di Atossa Abrahamian su Dissent, inverno 2012). Un’associazione composta da individui con esigenze analoghe ma attività eterogenee, spiega Heckscher, è in grado di garantire ai propri membri un’infrastruttura – di scelte, conoscenze, comunità – mettendoli nelle condizioni di portare avanti una propria carriera indipendente. Il sindacato, del resto, si rivolge solo a un particolare settore di lavoratori. Non tutte le professioni possono rientrarvi, e per avere accesso all’assicurazione sanitaria bisogna aver guadagnato diecimila dollari negli ultimi sei mesi oppure dimostrare di aver lavorato per almeno venti giorni nelle ultime otto settimane, come riportato nel pezzo sull’associazione di Atossa Abrahamian. Secondo alcuni, i sindacati tradizionali dovrebbero ampliare il proprio raggio d’azione includendo anche i lavoratori part-time e incentivando la condivisione del lavoro. La storica del lavoro Dorothy Sue Cobble, per esempio, ritiene che i sindacati dovrebbero ampliare il proprio discorso sull’occupazione. “Un buon lavoro può conciliare sia entrate sicure che flessibilità”, osserva. “Nel Diciannovesimo secolo una delle principali rivendicazioni del movimento dei lavoratori ruotava intorno al sogno dell’autoimpiego, il lavoratore aspirava a essere il capo di se stesso. Questo può rivelarsi uno stimolo oltremodo potente”.

Altri, come Guy Standing, pensano che i lavoratori si trovino di fronte a una situazione radicalmente nuova e auspicano una soluzione più utopica: un reddito universale di base (Universal Basic Income – UBI), una somma da dare a ciascuno a prescindere dal suo rendimento o comportamento lavorativo, da pagare tramite tassazione progressiva. Tale cifra, secondo Standing, garantirebbe agli individui la stabilità necessaria per mantenersi “razionali, tolleranti e comprensivi” anche nell’era della precarietà. Oltretutto “un reddito di base darebbe anche alla gente più controllo sul proprio tempo”. La certezza di un afflusso costante di denaro consentirebbe agli individui di fare le proprie scelte senza sentirsi schiacciati dalla morsa dell’economia precaria. Tale argomentazione a favore di quello che un tempo veniva chiamato reddito annuale garantito è una variante di quella promossa negli anni Settanta dai sostenitori dei diritti di welfare e, anche se in forma più attenuata, dalla Casa Bianca di Nixon. Siccome però nella mente dell’opinione pubblica essa era associata al concetto di welfare e il livello di supporto politico a cui poteva aspirare era troppo basso, la tesi non è riuscita a guadagnare consensi tra liberali di sinistra e conservatori.

Tuttavia, se vogliamo rafforzare la posizione dei lavoratori precari, prima di tutto dobbiamo trovare un modo di trattare la questione lavoro che tenga in considerazione anche le modalità occupazionali sperimentate dalla gente oggi. Battersi per migliorare il lavoro temporaneo implica approfondire i tratti di genere che lo caratterizzano.

Per tradizione, il lavoro delle donne non è mai stato lavoro. Preparare la cena o spazzare per terra, per quanto tempo ci volesse, se non era una cameriera a farlo non era da considerare lavoro, quanto piuttosto una manifestazione di amore e senso del dovere, un’appendice del naturale ruolo femminile di moglie e madre. Perché pretendere un compenso in denaro, ci si chiedeva, quando una famiglia soddisfatta riunita al tavolo della cena era l’unico premio di cui una donna avrebbe dovuto sentire il bisogno? “Per piacere”, chiedeva la madre di famiglia, “posso spazzare?” Oltretutto, data l’importanza del suo ruolo a casa, qualsiasi occupazione stipendiata veniva percepita come meramente accessoria rispetto ai doveri fondamentali della donna. Le donne erano soggetti secondari nel compito di procurare il pane alla famiglia, non avevano bisogno di lavori a tempo pieno. Qualsiasi ricompensa di tipo finanziario – nell’ordine degli “spiccioli” – era secondaria rispetto al ruolo cruciale che la donna rivestiva in ambito domestico. Di conseguenza, coloro che cercavano lavoro fuori casa venivano il più delle volte impiegate in contratti a breve termine e occupazioni part-time. Storicamente, stando a quanto riportato dalla storica del lavoro Alice Kessler-Harris, le donne hanno rappresentato sempre circa i due terzi degli occupati part-time o temporanei. Tale disparità di genere si registra ancora oggi: le probabilità che una donna lavori part-time sono il doppio rispetto a quelle di un uomo. Nel caso degli stage, questo squilibrio è ancora più evidente. Secondo uno studio condotto dalla società di ricerca e consulenza Intern Bridge, tre su quattro stagisti non retribuiti sono donne. I settori che più ricorrono alla modalità dello stage – moda, comunicazione e arte – sono del resto quelli a più alta concentrazione femminile.

Gli stagisti stessi, peraltro, presto o tardi arrivano a pensare di star facendo tutto fuorché un lavoro, anche se ci investono moltissime ore. Come sottolinea Ross Perlin nel suo saggio Intern Nation, gli studenti che lavorano a tempo pieno si considereranno comunque sempre studenti. Anche lunghi mesi passati a lavorare senza alcuna retribuzione verranno presentati come “un’esperienza istruttiva”, “un’opportunità di fare rete”, “un’occasione per provare qualcosa di nuovo”.

Chi può biasimarli? Il loro distacco dal proprio lavoro deriva da una più generale svalutazione del vero e proprio concetto di occupazione; questo atteggiamento non rappresenta affatto un caso isolato in un periodo in cui gran parte delle attività viene definita “non lavoro”. Sentiamo ogni giorno parlare di “economia post occupazionale” e nazione di iniziative private. La lavoratrice flessibile è molto più di una lavoratrice. È una creatrice o un’imprenditrice. 4-Hour Workweek di Timothy Ferriss è stato per più di quattro anni nella classifica dei libri più venduti del New York Times. La speranza di chi promuove il linguaggio del non-lavoro, spiega Perlin al telefono, è quella di arrivare a un punto in cui “se non esiste lavoro non esistono più nemmeno lavoratori… ma l’intera cornice di riferimento risulta evanescente”. Invece di lavoratori, “avremo quindi una schiera di imprenditori consumatori che promuoveranno il proprio marchio, aggirandosi con noncuranza nel mondo”. Probabilmente in questa presa di distanza c’è anche una componente di pregiudizio di classe: perché vedersi come il bidello dell’ufficio quando uno può considerarsi un amministratore delegato in embrione?

Nella sostanza, però, questa disposizione mentale spinge chi lavora a non esigere un compenso, anche se sta condizionando la propria intera esistenza per corrispondere all’ideale di perfetto collaboratore. Se il lavoratore non si percepisce come tale, non può pretendere di veder rispettati i propri diritti.

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 Il movimento femminista radicale degli anni Settanta aveva compreso come l’insistere sul ruolo naturale della donna la tenesse ancorata all’ambito domestico, a prescindere dal suo grado di insoddisfazione. “Non solo alle donne si è imposta la cura della casa, ma addirittura tale cura è stata trasformata in un attributo naturale della fisicità e personalità femminili, in un’esigenza intrinseca, in un’aspirazione che si presume dovrebbe scaturire dal profondo del nostro carattere di donne”, scriveva Silvia Federici in un suo documento del 1975, Il salario contro il lavoro domestico. Perché le donne potessero mettere in discussione i ruoli che erano stati loro assegnati, dovevano prima di tutto capire che si trattava di ruoli opinabili. Uno dei metodi principali per agevolare questo cambiamento di mentalità era quello di promuovere un’acquisizione di consapevolezza, spingendo le donne a condividere le proprie esperienze individuali per portare allo scoperto le forze sociali che le accomunavano. Scambiandosi esperienze, le donne avrebbero potuto accorgersi che la loro insoddisfazione domestica non era un fatto privato, quanto piuttosto il prodotto di un sistema più ampio. E la polemica non si limitò a investire solo i lavori di casa: il movimento femminista mise in discussione anche la maternità, il matrimonio, la condizione di moglie e tutti i ruoli e i contesti fino ad allora ritenuti naturali per una donna.

In tutte le loro espressioni di protesta, le femministe ribadivano come la cura della casa e dei figli e ogni altro aspetto connesso all’essere donna non fossero da considerare inclinazioni naturali del genere femminile, ma lavoro. “Possiamo chiedere qualsiasi cosa: assistenza quotidiana, pari compenso, lavanderie automatiche gratuite. Ma non otterremo nessun vero cambiamento se non attacchiamo lo stereotipo femminile alla radice”, spiegava la Federici. “La nostra battaglia per i servizi sociali, vale a dire per delle migliori condizioni di lavoro, sarà sempre destinata al fallimento se per prima cosa non stabiliamo che il nostro è un lavoro”. Fu proprio questa insistenza sul concetto di lavoro domestico come lavoro vero e proprio che spinse molte donne a chiedere un compenso per il proprio tempo, o attraverso il movimento Salario per il Lavoro Domestico o tramite la messa in discussione di altri ruoli ai quali era dato per scontato che le donne tacitamente si conformassero.

Molte delle proposte politiche avanzate dal movimento Salario per il Lavoro Domestico – per esempio quella di un’indennità da parte del governo per le casalinghe – non furono mai tradotte in pratica. Ma dagli anni Settanta in poi la percentuale di tempo dedicata dalle donne ai lavori di casa è progressivamente diminuita e contemporaneamente è aumentata quella degli uomini (nel 1976 una donna dedicava ai lavori domestici ventisei ore in media a settimana; nel 2005, secondo l’Istituto per la Ricerca Sociale dell’Università del Michigan, si è passati a diciassette ore), mentre la concentrazione femminile nella forza lavoro è salita. Quel che più importa, il porre l’accento sul lavoro ha fatto sì che la maggior parte delle donne oggi non cresca con la convinzione che la sua maggiore realizzazione possa essere quella di diventare una brava moglie. Malgrado il mito della naturale amorevolezza materna e di altri ideali associati al femminino persista con indiscussa forza anche nel Ventunesimo secolo, la maggior parte delle americane non arriva all’età adulta con l’ossessione di conformare la propria esistenza a un qualche presunto ruolo innato.

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 Allo stesso modo gli stagisti devono mettere in chiaro che anche il loro tempo e i loro sforzi hanno valore e che quel valore non si esaurisce nel concetto astratto di “un’opportunità di fare rete” o nella poco più concreta ipotesi di una mitica ascesa professionale. Il lavoro non è, come il modello dello stage vorrebbe invece far credere, uno scambio di favori. Lavoro vuol dire dare il proprio tempo in cambio di denaro.

Stiamo parlando di un movimento della consapevolezza per gli stagisti? Gli attivisti sostenitori dell’idea dello stage retribuito hanno già da tempo iniziato a seguire uno schema del genere, organizzando riunioni di stagisti in cui scambiarsi esperienze e proporre esempi particolarmente virtuosi. L’Intern Labor Rights, ramo collaterale del gruppo Arts and Labor Occupy, riporta come parte integrante della sua protesta proprio il modo in cui lo stage “svaluta la fondamentale dignità del lavoro” e “lo stage non retribuito dà origine a una cultura autosminuente nell’ambito della stessa forza lavoro”. Operazioni del genere restano esperimenti ancora circoscritti, ma hanno il merito di puntare alla diffusione di un maggiore senso dei propri diritti e del proprio lavoro tra gli stagisti. All’inizio del 2012 – dopo l’ufficializzazione da parte del Dipartimento del Lavoro di una serie di linee guida che suggerivano l’idea che finalmente ci si stesse per contrapporre a tale pratica – alcune cause si sono concluse con l’obbligo per diversi datori di lavoro di pagare i propri stagisti.

Il ricorso in ambito legale è uno strumento cruciale, perché fin quando la comune definizione di lavoro escluderà le modalità con cui si lavora oggi, non sarà possibile ottenere nessun cambiamento generalizzato delle condizioni dei precari. Anche i più recenti tentativi di aumentare le opportunità di organizzazione del lavoro sono associati a definizioni così rigide del concetto di “impiegato” che finiscono per escludere molti di coloro che avrebbero bisogno di organizzazione sindacale. Allo sfortunato Employee Free Choice Act, presentato nel 2009 al Congresso come tentativo di aumentare le facoltà dei lavoratori di aderire a un sindacato in America tramite il meccanismo della firma di una tessera da parte dei colleghi invece che con l’organizzazione di elezioni sindacali, non è stata data neanche una possibilità. E se torniamo al New Deal, il National Labor Relations Act, che attualmente tutela i lavoratori, esclude non solo i lavoratori autonomi ma anche i lavoratori domestici, del settore agricolo e chiunque abbia avuto responsabilità di supervisione.

Gli stagisti, commenta Eric Glatt, ex stagista che ha fatto causa alla Fox Searchlight nell’autunno del 2011, sono “così abituati a imparare, imparare, imparare che non si rendono conto di quanto contribuiscano ai profitti altrui… Pensano di non aver niente da offrire ai propri datori di lavoro fin quando non avranno raggiunto una vera anzianità di carriera. Ho scelto di fare causa perché mi sono reso conto di un vero e proprio problema strutturale dell’economia”, conclude. “Nessuno si aspetterebbe di entrare in fabbrica e lavorare gratis per sei mesi. La gente capisce in automatico che quello è un lavoro”.

Se vogliamo risolvere le problematiche associate all’occupazione temporanea, dobbiamo formulare un nuovo approccio alla questione del lavoro che tenga conto di tutte le modalità occupazionali sperimentate oggi: quelle non retribuite, quelle part-time, quelle precarie. Per cominciare, possiamo prendere come riferimento un movimento che le ha tenute tutte in considerazione. Il movimento Salario per Lavoro Domestico, con la sua retorica, rappresenta un modello perfetto di nuovo approccio al lavoro, volto a incentivare tutti i lavoratori a riconoscere il valore dei propri sforzi. Dovremmo prendere sul serio tentativi del genere. Forse, a quel punto, potremo organizzarci per esigere il compenso che il nostro tempo merita.

Traduzione di Chiara Rizzo

[Fonte: www.reset.it]