La Stampa – Fuori dal cerchio dell’oppressione. Le storie di chi ha scelto di non tacere – Fuori dal cerchio dell’oppressione

di Mariella Gramaglia

Fuori dal cerchio dell’oppressione
Oggi è la giornata mondiale per l’eliminazione della violenza sulle donne: le sfide di chi si ribella a alpi di blog e di chi sostiene l’Intifada rischiando pesanti conseguenze personali. Ma in Italia nell’80 per cento dei casi il teatro della crudeltà è la famiglia

DANA BAKDOUNI
Si è fatta fotografare senza velo su Facebook e con il passaporto

MALALA YOUSAFZAI
A 15 anni ha rischiato la vita per continuare ad andare a scuola

La bambina e l’orco. La donna e l’aguzzino. La relazione stretta fra chi esercita la violenza e chi la patisce disegna una spazio claustrofobico, un cerchio chiuso. Ci si conosce, si ha consuetudine l’una dell’altro. Come in una narrazione crudele e ripetitiva, si dicono le stesse parole e si compiono gli stessi gesti fino all’autodistruzione. Spesso accade così in Italia e in altri Paesi che si vorrebbero avanzati. Una cupa rivincita del privato e della segretezza sembra mettere in scacco il discorso pubblico. Le operatrici dei centri italiani contro la violenza ci ricordano che, nell’ottanta per cento dei casi, il teatro della crudeltà è la famiglia. E se spalanchiamo i portoni del mondo, come oggi ci chiede la giornata internazionale contro la violenza sulle donne? Forse la perfidia del potere (quando non si tratta del segreto dominio privato) è ancora più spietata, ma un esercito di ragazze percorre le strade della terra senza abbassare lo sguardo. Sembrano pronte alla sfida. Malala Yousafzai, la studentessa pachistana di 15 anni che ha rischiato la vita in un attentato talebano per continuare ad andare a scuola, cela farà a sopravvivere. II suo blog testimonia, fin da quando aveva 11 anni, la determinazione a studiare e a far studiare le altre ragazze. Il suo desiderio di vestirsi di rosa, la leggerezza cui non rinuncia. La sua candidatura al Nobel per la pace, l’autorevolezza che si è conquistata combattendo senza armi. Savita (la chiameremo così per proteggerne l’anonimato), 16 anni, nata a Dabra, in Haryana, uno degli stati più poveri dell’India dove l’aborto selettivo delle bambine è la normalità, ha superato con successo pochi giorni fa gli esami di storia, di economia e di sanscrito. Nulla di eroico, se non fosse stata violentata il 7 settembre scorso da una banda di balordi di «casta alta» che hanno creduto buona e moderna l’idea registrare su un dvd le loro prodezze. Troppo. Il padre della ragazza si è suicidato per l’orrore, centinaia di persone del villaggio hanno manifestato e chiesto giustizia. Benché Savita sia una da-lit (intoccabile), sette giovani nobilastri della casta Jat sono stati arrestati. E lei non ha smesso un solo giorno di studiare. Dana Bakdounis, 21 anni, siriana, vuole sentire il vento tra i capelli. No, non come quelle ragazze che amano correre in motorino senza casco. Si è fatta fotografare su Facebook senza velo e con le braccia protese a mostrare il suo passaporto accompagnato da un manifesto politico vergato a mano: «Sostengo l’Intifada delle donne perché per 20 anni non mi hanno permesso di sentire il vento nei capelli e sulla pelle». Dal 22 ottobre scorso la foto scompare, viene oscurata e ricompare nella pagina Facebook «L’Intifada delle donne nel mondo arabo». Centinaia di ragazze seguono il suo esempio, aggiungendo alla sua immagine la propria e il loro sintetico credo politico. «Sostengo l’Intifada delle donne perché il mio corpo e il mio futuro sono miei». «Sostengo l’Intifada delle donne perché non voglio più indossare tutto questo nero». Salwa Husseini, 20 anni, egiziana, studentessa, protagonista della ribellione nel suo Paese, è stata arrestata il 9 marzo 2011. Perquisita, costretta a spogliarsi, sottoposta un test forzato di verginità, deve questo trattamento al disprezzo dei militari per l’autonomia femminile. «Questa ragazza – ha spiegato un generale ai giornalisti – non è come mia figlia o vostra sorella, era diversa, stava insieme a degli uomini in un tenda». Razan Ghazzawi, 31 anni, nata negli Stati Uniti, blogger, «citizen journalist», mito della primavera araba, è stata arrestata due volte: la prima volta il 30 novembre 2011 e la seconda nel febbraio scorso. «Al confine Siro-giordano il cecchino misericordioso spara sempre alla stessa ora», scriveva sul suo blog Ma di lei, benché rilasciata, non ci sono notizie rassicuranti: é uno dei personaggi sorvegliati speciali su cui Amnesty International lancia l’allarme e chiama alla solidarietà in questa giornata mondiale. Cosi come lo fa per Nasrim Sotoudeh, 49 anni, la più adulta della lista, eroica avvocata per i diritti umani in Iran, arrestata nel 2011 ed esposta ai rischi di un lungo sciopero della fame. Erede di un nobile lignaggio di donne coraggiose (fra cui la Nobel Shirin Ebadi), il 26 ottobre scorso ha vinto il premio Sakharov perla libertà di pensiero insieme al regista e suo compatriota Jafar Panahi, poeta finissimo del dolore e della libertà femminili. Finaliste, insieme a loro, erano le magnifiche «impure folli» che hanno osato invocare la Theotokos, la vergine Maria, perché le liberasse da Putin e dal patriarca Cirillo. Sono Nadia Tolokonnikova e Maria Alyokhina, rispettivamente 23 e 24 anni, più note come Pussy Riot, blasfeme, teppiste, istigatrici all’odio religioso. Camminano cosi, talvolta ribalde, per le strade del mondo, le nuove ragazze. Osano sfidare e persino scherzare. Nel «Saudiwoman’s weblog», pericolosissimo anfratto della rete dove le donne saudite osano fotografarsi a vicenda mentre guidano la macchina, le redattrici disegnano i loro visi in verde e blu sotto il velo, in stile Andy Warhol. Ridono. Con gli ombrelli aperti si riparano da una pioggia di minuscole automobili che arriva su di loro come una promessa certa di futuro. La composizione si chiama «Ottimismo».

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