La Bussola Quotidiana – Il lento cammino delle donne afghane

di Massimo Introvigne

Questa settimana chiunque segua le vicende afghane è rimasto profondamente turbato dal caso di Storay, la donna uccisa dal marito e dalla suocera perché aveva partorito per la terza volta – o quarta, secondo altre fonti – una femmina invece di un maschio. Non si tratta del primo caso del genere, né – a rigore – di qualche cosa che si può imputare all’islam. La ricerca ossessiva del figlio maschio nasce da un impasto letale di considerazioni economiche, antichi pregiudizi tribali e idee del tutto moderne sulla possibilità di scegliere il figlio che si vuole avere. Ma è vero che l’ideologia dei talebani – che a sua volta mette insieme codici tribali e islam fondamentalista – ha creato in Afghanistan un clima che fa spesso delle donne persone di serie B, vittima di discriminazioni di ogni genere.

Contro queste discriminazioni e la cultura che le sostiene si è da tempo attivato – già con il ministro Frattini, e ora con il suo successore Terzi – il governo italiano, coadiuvato da tutta una serie di istituzioni, anche regionali, del nostro Paese. Benché i giornali in questi giorni si occupino soprattutto del freddo, vale la pena di segnalare la visita ufficiale in corso in Afghanistan di Isabella Rauti, membro dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio, una Regione che negli ultimi anni e mesi – pure in tempi di crisi economica – ha cercato insieme al Ministero degli Esteri di destinare risorse alla causa delle donne discriminate in alcuni Paesi a maggioranza islamica.

Isabella Rauti ha incontrato la presidente della ONG HAWCA ( Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan), Selay Ghaffar e ha visitato la casa rifugio per donne e bambini vittime di violenza, che l’organizzazione gestisce a Kabul dal 2004. «La questione femminile, sulla quale il presidente Karzai si è espresso anche in occasione della sua recente visita a Roma, resta un nodo centrale nel processo di transizione, che si concluderà nel 2014 con il totale controllo del governo afghano sul Paese», ha dichiarato a La Bussola Quotidiana Isabella Rauti. «Ma i recenti casi di Storay, come sapete uccisa dal marito perché aveva partorito la terza femmina invece che un maschio, e di Sarah Gul, sposa-bambina di quindici anni, reclusa dalla famiglia in un seminterrato e torturata per mesi perché non voleva prostituirsi e, più in generale, la condizione delle donne, testimoniano che c’è ancora molto da fare in Afghanistan per garantire i diritti fondamentali».

Prosegue Isabella Rauti: «La visita presso la struttura della ONG HAWCA a Kabul – che offre servizi di accoglienza a donne e bambini vittime di violenze, ed assistenza medica e psicologica, consulenza legale, istruzione di base e formazione professionale – è il paradigma di un contrappunto: da un lato la persistenza di un diritto consuetudinario di sopraffazione delle donne e dall’altro gli sforzi che si stanno compiendo per le libertà femminili in quella parte della società afghana che vuole la ricostruzione ed un futuro di democrazia». HAWCA, attiva dal 1999, lavora con molte organizzazioni umanitarie internazionali e con il nostro Ministero degli Affari Esteri; e in Afghanistan, la cooperazione italiana gioca un ruolo fondamentale non solo nelle forme di assistenza concreta ma anche nella formazione professionale delle donne e nel sostegno alla popolazione civile.

La casa rifugio, dove lavorano diciassette specialisti, oggi ospita circa quarantacinque donne vittime di violenze che arrivano alla casa protetta e ai centri di aiuto della HAWCA attraverso i canali del Ministero degli affari femminili, delle autorità giudiziarie, della polizia e della Commissione nazionale per i diritti umani. «Proprio questa settimana è stato sottoscritto – racconta Selay Ghaffar – un importante accordo tra il governo e i responsabili di dodici case rifugio sparse sul territorio afghano, per un regolamento comune che definisce il ruolo partecipativo e le responsabilità istituzionali ma anche l’organizzazione ed il funzionamento di tutti i centri».

Proprio perché il problema è culturale, la strada è ancora molto lunga. Ma è giusto far conoscere il ruolo della cooperazione italiana, che non è solo militare, perché le donne afghane non siano più vittima di crimini odiosi.

[Fonte: www.labussolaquotidiana.it]