Avvenire – Davvero uguali perché diverse: per noi donne una questione di dignità

di Lucia Bellaspiga

FRUTTI AMARI DI UNA CULTURA CHE NON CI SA ACCOGLIERE PER CIÒ CHE SIAMO

Qualcosa va fatto. Il silenzioso stillicidio di delitti con vittime al femminile, che ogni anno continua a verificarsi, fa dell’Italia un Paese che necessita di un severo esame di coscienza.
I numeri: se dagli anni Settanta a oggi gli omicidi in generale sono diminuiti lo si deve solo al calo delle uccisioni di maschi da parte di altri maschi (dati Istat), mentre inalterati restano gli omicidi degli uomini sulle femmine, in percentuale più vittime che in passato. Ogni tre giorni una donna perde la vita per mano e volontà di un uomo. E quale uomo? Nella maggior parte dei casi quel dispensatore di morte è proprio colui che dovrebbe amarla come marito, fidanzato, fratello, figlio, amico, perché la violenza più diffusa e accecata è quella domestica, che non ti aspetti, che arriva da chi mai avresti ritenuto un nemico. Tutto questo raccontano le storie grondanti dolore che scopriamo ogni volta dietro un nuovo, bestiale omicidio: quante gelosie ossessive, quanti complessi di inferiorità, quanto narcisismo maschile dietro quella barbarie. Quante donne stanche di subire, che avevano provato ad andarsene prima che la furia esplodesse, e invano avevano denunciato. Quante ragazze che si erano fidate ad aprire la porta – di casa e del cuore – al volto amico, la maschera preferita dall’orco. Quante madri e figlie che da anni attendevano il rientro di un padre padrone abbrutito… Sono storie che anche quando non uccidono annientano, tormenti che durano tutta una vita senza che la vittima abbia coraggio di denunciarli, martirii accettati in silenzio proprio perché il carnefice è l’uomo che più ti è vicino e che magari continui a proteggere con quella speranza tutta al femminile di poterlo ancora cambiare… Il «femminicidio» è una piaga radicata, in un’Italia che ancora nel 1981 legittimava un «omicidio per motivi d’onore». Da questa cultura ancestrale ancora non ci siamo del tutto liberati, anzi, oggi scopriamo la discriminazione importata dei padri che puniscono con la morte i costumi troppo occidentali della figlia, o la sua resistenza a sposare a dodici anni un uomo ben più anziano di lei. Qualcosa, allora, va fatto. E alcune delle proposte avanzate dalle deputate Bongiorno e Carfagna possono essere utili. Colpisce l’introduzione di un’aggravante per punire con l’ergastolo chi uccide «la donna in quanto donna» (anche se ogni azione violenta, se non nasce da follia indiscriminata, colpisce qualcuno in quanto qualcuno, e molte sono le categorie che allora meriterebbero la stessa attenzione, specie le più deboli e indifese). Ma tutto questo non basta, è come si costruisse una casa a partire dal tetto, tralasciando le fondamenta. Se la donna è discriminata occorre agire sulle cause, intervenire su una sottocultura ancora presente, reagire con forza contro un’immagine che mina la dignità della donna. Come non rendersi conto che fin dall’adolescenza la figura femminile è fraintesa e snaturata? Diventare “donna”, secondo stereotipi che ci bombardano da ogni direzione significa rinunciare a esserlo veramente, deformare la nostra vera natura per compiacere canoni che ci vengono imposti ma in realtà non ci descrivono né ci appartengono. Siamo discriminate, è vero, ma in mille altri modi, oltre che dal protagonismo del maschio. Lo siamo ogni volta che una donna ricorre all’aborto perché nessuno tutela la sua maternità e fuga le sue solitudini. Ogni volta che, in nome di un mal riposto “femminismo”, è privata del suo vero diritto, quello di dare la vita. Ogni volta che il suo utero è dato “in affitto”, venduto, mercificato. Lo siamo quando la sua bellezza diventa carne da esposizione, quando sgambetta (s)vestita da letterina, velina, prezzemolina, anziché mettere a frutto i suoi talenti. Quando punta sul corpo e non sulla persona tutta intera, perché solo così verrà valorizzata. Il femminicidio sovente lo compiamo noi stesse, uccidendo la donna che è in noi e sacrificandola per il maschio, dal quale esigiamo rispetto magari proprio mentre ci esibiamo nel modo peggiore. Riflesse su specchi deformanti, da tempo ci vergogniamo di mostrare la nostra anima femminile, troppo impegnate a essere uguali agli uomini, dimenticando che la vera parità l’avremo conquistata quando riusciremo, senza complessi, a essere diverse, come siamo, da loro. Insegniamo a farci rispettare, iniziando come madri dai nostri figli e dalle nostre figlie, educando a un’idea di donna da scriversi con la D maiuscola: la D di dignità.

Avvenire – Davvero uguali perche’ diverse- per noi donne una questione di dignita’
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